Uno sguardo al futuro del Rwanda: crescere dopo il trauma 19 anni dopo il genocidio

ATTI DELL’EVENTO: “UNO SGUARDO AL FUTURO DEL RWANDA: CRESCERE DOPO IL TRAUMA 19 ANNI DOPO IL GENOCIDIO”

Sabato 19 ottobre 2013 – Sede CIFE Roma – Salita de’ Crescenzi, 26

Dott.ssa Silvia Tarsi

Psicologa,  Psiconcologa,  Psicoterapeuta,   Analista   Transazionale  Certificato   (CTA), Terapeuta Practitioner EMDR

Associazione “Lutto e Crescita – Grief & Growth”, Istituto di intervento, formazione e ricerca sul potere trasformativo della perdita e del trauma

Mi sento bloccato e provo disagio: comprendiamo cosa accade e perché

L’11 dicembre 1946 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riconobbe il crimine di genocidio come “Una negazione del diritto alla vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte”.

Il genocidio è stato un atroce evento cosiddetto “critico”, Roger Solomon definisce un “evento critico” come una qualsiasi situazione potenzialmente in grado di sopraffare il senso di vulnerabilità e/o il senso di controllo di una persona.

Rispetto a tale evento la persona lo vive come un Trauma, ossia ha ricordi di esso immagazzinati in modo disadattivo nel cervello, ricordi che successivamente all’evento vivono nel tempo del trauma, ricordi percepiti e riesperiti piuttosto che narrati.

Infatti, in condizioni di stress traumatico viene meno quel meccanismo di auto guarigione che tutti abbiamo in condizioni normali, ossia in condizioni normali le informazioni legate alle diverse situazioni che affrontiamo quotidianamente vengono elaborate grazie alla creazione di collegamenti adeguati con le esperienze passate, all’attivazione di un processo di risoluzione dei problemi del presente e nella riduzione dello stress emotivo, utilizzando costruttivamente l’esperienza e contribuendo a generare nuovi apprendimenti. In condizioni di stress traumatico può accadere che questo meccanismo naturale di autoguarigione si blocchi. In questo caso, le informazioni relative all’evento stressante non si integrano con il resto delle esperienze, ma rimangono “intrappolate” nel cervello con le immagini, i suoni, gli odori, i pensieri, le emozioni e le sensazioni corporee che sono state vissute al momento dell’evento e, quindi, l’elaborazione si blocca. E’ come se l’esperienza stressante non potesse essere “digerita”, non potesse essere trasformata in un normale ricordo e, quindi, provoca sofferenza psicologica.

Il genocidio è considerato un evento caratterizzato da due Traumi (Kai Erikson, 76): uno individuale: “un insulto alla psiche tale da sfondare le difese di una persona in modo così improvviso e con una tale violenza da impedirle una reazione efficace” e un trauma collettivo: “un insulto al tessuto fondamentale della vita sociale tale da danneggiare i legami che tengono insieme le persone e da compromettere il senso di comunità prevalente”. Basta pensare a come si è costituito il genocidio, come parenti, vicini di casa si sono trasformati in carnefici dei loro stessi familiari, amici, perché era stato detto loro di uccidere.

In questo contesto ovviamente lo Stress Post Traumatico è da considerarsi quindi una reazione normale di una persona normale ad un evento anormale, è un meccanismo di sopravvivenza, tuttavia la reazione che dobbiamo considerare normale ad un evento così atroce, è caratterizzata da rilevanti sintomi di Stress Post Traumatico fino allo sviluppo della sua versione patologica se perdurano nel tempo, ossia il Disturbo vero e proprio, con il quale le persone vivono con la sensazione di sentirsi in allerta permanente e mostrano un disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.

Ora andremo ad individuare i sintomi dello Stress Post Traumatico che dividiamo per semplicità espositiva in sintomi cognitivi, emotivi, comportamentali, fisici, spirituali e sociali.

I sintomi di Stress di tipo cognitivo sono: disfunzioni nel ricordo, difficoltà di concentrazione, difficoltà di risoluzione dei problemi, diminuzione delle capacità attentive, disorientamento, autobiasimo e valutazioni negative, pensieri disturbanti ricorrenti.

Ancora, i sintomi di stress sono anche di tipo emotivi: Ansia/Paura/Panico, rabbia, depressione, colpa, vergogna, sensazione di sfiducia, stordimento/Appiattimento emotivo/Distacco, sensazione di essere indifesi.

Del Disturbo Post traumatico da stress fanno parte anche i sintomi di tipo comportamentali: Isolamento, evitamento, aumento della conflittualità, scatti di rabbia, aumento del ricorso a comportamenti di controllo, impulsività, iper/ipo-reattività, variazioni delle abitudini nel mangiare e nel bere.

Sono ben visibili perché altrettanto invalidanti i sintomi di stress fisici: disturbi del sonno, risposta di allarme esagerata, agitazione/Irrequietezza, nausea, dolori e malesseri, tensione muscolare, vertigini.

Gli ultimi ma non meno importanti sono i sintomi di stress spirituali e sociali, quali perdita di significato,   domandarsi “Perché è successo?”, perdita di legami umani/comunicativi che uniscono e che aiutano a creare significati, perdita della fiducia/sicurezza di base.

Come tutti sappiamo purtroppo durante il genocidio le persone non hanno solamente vissuto un evento atrocemente traumatico e violento, ma in tale condizione hanno anche perso molti familiari e amici.

Purtroppo molte persone che hanno sviluppato il Disturbo Post Traumatico da Stress vivendo con i relativi sintomi oltre un anno dal tragico evento, con molta probabilità avranno elaborato la perdita del loro caro in maniera cosiddetta “complicata” fino a sviluppare il Disturbo da Lutto Complicato.

Il Lutto Complicato prevede un prolungarsi del disagio emotivo oltre i sei mesi dalla perdita e descrive sintomi di tipo intrusivo, di evitamento di tutto ciò che ricorda la perdita, di depressione/disperazione.

Molta ricerca (Parkes 2007) ha dimostrato che la perdita di una persona cara amata può causare disagio duraturo e problemi di salute fisica e mentale.

Le persone con Lutto Complicato sperimentano che il loro mondo di significati, ciò che hanno sempre dato per scontato è stato distrutto; la vita sembra aver perso significato e direzione dopo la loro perdita e si vive quindi uno sconvolgimento sociale/identitario.

In una ricerca di Susanne Schaal e collaboratori (Università di Konstanz, Germania e di Butare, Rwanda) del 2007 e pubblicata nel 2010 su orfani (206) e vedove (194) sopravvissute al genocidio, si valutano i criteri presenti del Disturbo da Lutto Prolungato (Prigerson 2008) e i fattori di rischio di esso. In questa ricerca emerge che una significativa parte del campione soffre i sintomi del Disturbo da Lutto Prolungato, dove il desiderio intenso/nostalgia per la persona cara scomparsa è il maggior sintomo riscontrato, persino dopo 12 anni dall’evento traumatico, per cui si evince che se non si ricerca un intervento clinico appropriato, tale non elaborazione del Lutto può continuare per tutta la vita portando notevoli disagi all’equilibrio delle persone e delle famiglie. È storico lo studio del 1995 di Mary Ainsworth e Carolyn Eichberg che riguarda gli effetti sulla relazione bambino-madre del Lutto irrisolto della madre per una figura importante di attaccamento o di un’altra esperienza traumatica (i bambini mostrano un attaccamento disorganizzato/disorientato verso le madri).

Dalla ricerca di Schaal inoltre si riscontra che i maggiori fattori di rischio per il Disturbo da Lutto Prolungato sono la perdita di una persona cara in circostanze violente, i gravi sintomi da Disturbo Post-Traumatico da Stress, la mancanza di risorse religiose/spirituali nella vita attuale (reazioni più severe al lutto) e il non ritrovamento dei corpi delle persone care uccise.

Il mio intervento non avrebbe senso se dopo non ci fosse quello dei miei colleghi che possono trattare cosa si può fare anche dopo un evento cosi traumatico e violento, per prendersi cura delle profonde ferite e quali strumenti possiamo usare noi psicologi per aiutare le persone a raggiungere questo obiettivo.